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Luigi Einaudi tra libertà e autonomia

Davide Cadeddu
Milano, FrancoAngeli, 158 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2018

Nelle pagine introduttive l’a. identifica nell’autonomia il fil rouge che permetterebbe
di «ricondurre a unità la riflessione liberale einaudiana» (p. 9); autonomia dell’individuo,
delle realtà associative cui contribuisce a dare corpo e degli enti territoriali.
La centralità di quella concezione della vita individuale e associata trova conferma
nel lungo dattiloscritto del «maestro dei maestri», Gioele Solari, intitolato Luigi Einaudi e
il liberalismo democratico, conservato presso la Biblioteca interdipartimentale Gioele Solari
dell’Università degli Studi di Torino e qui pubblicato per la prima volta nella sua interezza.
In Einaudi – scrive Solari – fin dai suoi primi studi di economia agraria e industriale
era andata radicandosi la convinzione che l’imprenditore incarnasse il «motore» della «civiltà
industriale e commerciale» e dispiegasse «un’attività creatrice per nulla inferiore alle
più alte forme di spiritualità umana». L’imprenditore difatti, intuendo «i bisogni nuovi» e
adattando «i mezzi agli scopi», si faceva «promotore di progresso, di benessere collettivo,
di potenza economica nazionale» (p. 43).
Tale funzione salvifica di quella civiltà e opera di perfezionamento materiale e morale
l’imprenditore poteva assolvere però nella misura in cui il suo sforzo prometeico non fosse
fiaccato dalla comoda protezione delle dogane e delle sovvenzioni. Medesimo compito
Einaudi affidava agli operai, la cui elevazione sociale e morale, unitamente alla massimizzazione
della produzione, sarebbe stata garantita non dal «collettivismo» e dalle normative
di favore ma dal riconoscimento pieno del diritto all’autorganizzazione e alla lotta. Così, se
«socialista» era l’industriale che elemosinava dazi allo Stato, «liberale» era l’operaio che si
associava ad altri «per creare uno strumento comune di cooperazione e di difesa» (p. 64).
Autonomi par excellence erano poi, per l’Einaudi di Solari, la piccola proprietà agricola,
garante della «stabilità sociale» (p. 40), e più in generale il ceto medio, «custode – come osserva
l’a. – di un particolare spirito di equilibrio e autonomia» (p. 8). Quest’ultima, inoltre,
sul piano istituzionale avrebbe dovuto tradursi in quella degli enti territoriali, con funzionari
responsabili verso le autorità locali e queste, a loro volta, verso gli elettori, in quanto – come
recita l’articolo Self-Government in Italy apparso adespoto sul «The Economist» nel settembre
del 1943 ma da attribuire, come ben dimostra l’a., a Einaudi – «democracy, if it means
anything, means self-government, government from below» (p. 139).
Non solo, però, lo Stato federale vagheggiato da Einaudi sarebbe rimasto in mente
Dei ma anche la tanto decantata autonomia dei ceti medi sarebbe naufragata nell’immediato
secondo dopoguerra a fronte della corposa e prosaica realtà delle richieste delle
varie associazioni di categoria. Negli stessi anni in cui sul «Corriere della Sera» Einaudi
presentava i ceti medi indipendenti, artigiani, commercianti e piccoli e medi industriali
quale presidio ultimo della libertà civile e politica, il quarto governo De Gasperi, infatti,
varava a loro sostegno misure legislative finanziarie e creditizie.

Luca Tedesco