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L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario

Patrick Bernhard, Lutz Klinkhammer (a cura di)
Roma, Viella, 290 pp., € 32,00

Anno di pubblicazione: 2017

Per definire il modello dell’italiano integralmente conforme ai principi del fascismo
– l’«uomo nuovo», appunto – vennero mobilitati durante il ventennio fiumi di parole
e immagini (qui presi in esame da Loreto Di Nucci). Ma per tentare di fare vivere
quell’idea, di convincere gli italiani reali a conformare a essa le proprie visioni e i propri
comportamenti, fu necessario mettere in moto un complesso apparato istituzionale, adattandovi
strutture preesistenti (come la scuola, analizzata dal saggio di Luca La Rovere) e
creandone di nuove, come le istituzioni sportive (Patrizia Dogliani) e l’Opera nazionale
maternità e infanzia (Michela Minesso). Non aver chiuso il tema entro i confini della
storia culturale, ma avere invece chiamato in causa il ruolo delle istituzioni è un indubbio
motivo di merito di questo volume, promosso dall’Istituto italo-germanico di Roma.
Le realizzazioni – è la conclusione a cui giungono molti saggi – furono alla fine
largamente inferiori alle aspettative, non solo per le inefficienze delle istituzioni e per i
numerosi conflitti interni, ma anche per una certa vaghezza della concezione dell’«uomo
nuovo»; una concezione che, come sottolinea Alessandra Parodi, attingeva largamente ai
tipi ideali del soldato e del contadino (al pari del concorrenziale modello antropologico
della «Chiesa totalitaria», analizzato da Fulvio De Giorgi), ma conservava irrisolte contraddizioni:
l’italiano ideale si doveva ispirare a modelli tradizionali ma al tempo stesso gli
erano attribuiti connotati prettamente moderni, come il dinamismo e la proiezione verso
il futuro; doveva essere un perfetto gregario, inquadrato nelle gerarchie, e al tempo stesso
presentare caratteri eccezionali.
Tuttavia, avvertono i due curatori, «la dicotomia fallimento/successo rischia di essere
poco fruttuosa, […] conviene invece riflettere sul concetto di “uomo nuovo” come un
potenziale elemento trainante del regime» (p. 14). È un’osservazione ampiamente condivisibile.
Dai saggi qui raccolti emerge come, nonostante i limiti ideologici e pratici,
il progetto di cambiare la mentalità e i comportamenti degli italiani conseguì alcuni risultati.
In primo luogo, suscitò l’attiva partecipazione di numerosi gruppi professionali,
disposti ad adottare gli obiettivi politici del regime anche per perseguire i propri fini (di
potere, di ambizione, di status). Fu il caso di medici (studiati da Claudia Mantovani),
educatori, artisti (Monica Cioli), scienziati (Roberto Maiocchi), antropologi (Giovanni
Cerro), esperti di propaganda (Mariuccia Salvati), tecnici dell’economia agraria (Patrick
Bernhard). In secondo luogo, l’«uomo nuovo» identificava un modello ideale: era maschio,
bianco, sano, eterosessuale e italiano. Si stabilivano in questo modo modalità di
riconoscimento e, per contrasto, linee di separazione su cui si sarebbero fondate pratiche
di stigmatizzazione, marginalizzazione sociale e discriminazione, che in alcuni casi diedero
luogo a politiche razziste. Quanto di tutto questo sia passato all’Italia postfascista è
questione con cui recentemente la storiografia ha iniziato a fare i conti.

Alessio Gagliardi