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Pier Luigi Ballini (a cura di) – La rivoluzione liberale e le nazioni divise, Venezia – 2000

Pier Luigi Ballini (a cura di)
Lettere ed Arti, Istituto Veneto di Scienze

Anno di pubblicazione: 2000

Questa edizione delle relazioni presentate ad un convegno internazionale per il 150o anniversario del 1848, raccoglie contributi di valore e significato diverso. Colpisce una certa riluttanza da parte dei partecipanti ad aprirsi a prospettive nuove di ricerca. Alcuni capitoli – come quelli di Della Peruta e di Galasso – avrebbero potuti essere stati scritti trent’anni fa. È sorprendente che non ci siano riferimenti all’opera innovativa di Sperber, Aminzade, Lipp, Frevert e Joan Scott. In particolare, il ruolo delle donne – sicuramente una delle questioni che avrebbe meritato maggiore attenzione – è del tutto trascurato. Convenzionale è pure la geografia della rivoluzione: la raccolta è dominata dai casi italiano e tedesco, accompagnati da una breve rassegna della “primavera dei popoli slavi”. Se lo scopo era offrire una prospettiva internazionale, sarebbe stato necessario muoversi con maggiore immaginazione, e invitare alla discussione specialisti su una più ampia gamma di aree geopolitiche, includendo, per esempio, i paesi scandinavi, che, come la Russia e il Regno Unito evitarono la rivoluzione. Lo stesso dicasi per il ’48 fuori d’Europa, che Miles Taylor ha esplorato recentemente in “Past & Present”.
Tra i capitoli sull’Italia spiccano gli eleganti contributi di Sorba (“la patria” nei libretti verdiani) e De Lorenzo (la circolazione delle notizie nelle Due Sicilie). Romanelli ha scritto un capitolo interessante sull’atteggiamento di parte del liberalismo moderato, individuando presunte “peculiarità” del caso italiano nell’indifferenza verso l’idea di una “costituzione”. Questo tema, già sottolineato da Meriggi e La Salvia, offre prospettive stimolanti, ma deve essere preso cum grano salis. Da un lato, la mancanza di “sensibilità costituzionale” e “di riflessioni dottrinarie sull’argomento” non era “peculiare” italiana. Dall’altro, la tesi che i liberali italiani prestassero “poca attenzione” agli sviluppi del liberalismo d’oltralpe o del storico di tipo inglese” (p. 281), e che la loro cultura “[mancasse] di modelli di legittimazione e di richiami dottrinari forti” (p. 285) è inapplicabile a molti liberali italiani. Forse si tratta di accettare che tra i moderati c’erano differenze, e che i cattolico-moderati di Romanelli non erano più rappresentativi o “italiani” di altri liberali – cosmopoliti e laici – che invece della costituzione si curavano molto, come Maurizio Isabella ha dimostrato nel suo studio su Giuseppe Pecchio.
Infine, è straordinario che nessuno degli studiosi che hanno contribuito a questa raccolta abbia fatto menzione di una delle svolte più importanti nella creazione della “nazione liberale”: l’emancipazione degli ebrei e dei protestanti, il primo passo nelle lotte per le libertà civili che si sarebbero combattute negli anni successivi. Questo è un dato preoccupante perché indicativo di una scarsa sensibilità alla dimensione multiculturale (e liberale) non solo del Risorgimento, ma anche dell’Italia contemporanea nel suo farsi.

Eugenio F. Biagini