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Salerno fascista. Potere provinciale e declino della città nella storia del ventennio

Alfonso Gambardella
Cava de’ Tirreni, Marlin, 322 pp., €19,00

Anno di pubblicazione: 2015

Salerno fascista è un libro interessante e ricco di spunti, corredato da un’approfondita
appendice statistica e diverse foto d’epoca. Una piacevole sorpresa, tanto più che l’a., per
sua stessa ammissione più vicino agli studi di geografia economica, non rientra tra gli
storici di professione.
Sulla scia di una già robusta tradizione storiografica sulle dinamiche di potere del
«fascismo in provincia», il volume ricostruisce le vicende politiche e urbanistiche della
città di Salerno durante il ventennio. L’a. fonda la propria ricostruzione alla luce di un’ampia
mole documentaria consultata negli archivi campani e presso l’Archivio centrale dello
Stato.
Le vicende legate alla persistenza di una certa élite locale, gravitante grosso modo
intorno alle stesse famiglie già in vista durante l’età liberale, sono ricostruite fin nel dettaglio
più minuto. Come è cambiato dunque il ruolo della città nel corso del regime?
Come si evince dal titolo, Salerno, pur all’interno di un non insignificante processo di
trasformazione urbanistica, vide progressivamente diminuire la sua «effettiva capacità di
governo e di egemonia territoriale e politica» (pp. 9-10). Tale declino fu determinato dal
forte peso esercitato in città da gruppi di potere poco vicini al fascismo romano e più
sensibili ai consolidati interessi delle classi dirigenti locali. Inoltre, questi stessi gruppi
risultavano tutti legati a vario titolo alla massoneria, che a Salerno e in provincia riuscì a
mantenere, anche dopo il 1925, posti di una certa rilevanza all’interno della società (p.
168). Le reti massoniche sembrerebbero aver giocato un qualche ruolo – che forse andava
meglio approfondito – nel declino della città sotto il fascismo.
A parere di chi scrive le parti più interessanti del volume sono quelle in cui è il paesaggio
stesso, più che il reticolo di rapporti interpersonali a volte dispersivo, a diventare
protagonista. È così nel caso del capitolo dedicato alle trasformazioni della piana del
Sele, «il luogo del potere reale» (pp. 173-190). In questa vasta pianura incastonata tra i
Monti Lattari e il Cilento operò un gruppo di capitalisti agrari in grado di sfruttare al
meglio i rapporti con il regime e le possibilità offerte dalla legislazione per il prosciugamento
delle zone paludose. Bonifiche, canali d’irrigazioni, dighe, potenziamento dei
piccoli centri – come Battipaglia –, razionalizzazione dell’allevamento bufalino (che in
parte contribuiva all’allargamento della palude) trasformarono la Piana del Sele in una
delle zone più dinamiche della provincia di Salerno, insieme al già vitale Agro nocerinosarnese.
Sul piano nazionale la bonifica determinò un aumento di produzione inferiore
solo al valore registrato dalla bonifica ferrarese. Per un territorio come la Piana del Sele,
dove agli inizi del ’900 «il 100% della popolazione era malarica» (p. 173), si trattò senza
dubbio di un processo in grado di condizionare il rapporto uomo-territorio ben oltre la
durata del regime.

 Filippo Triola