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«Sembrava nevicasse». La Eternit di Casale Monferrato e la Fibronit di Broni: due comunità di fronte all’amianto

Bruno Ziglioli
Milano, FrancoAngeli, 160 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2016

n linea con i propri interessi per la storia ambientale già emersi nel volume La mina vagante (FrancoAngeli, 2010) dedicato alla contaminazione di Seveso, l’a. torna a cimentarsi con il tema dei disastri industriali affrontando con un meticoloso lavoro di ricerca la questione dell’amianto in Italia. Case study della sua riflessione è la lavorazione dell’asbesto negli stabilimenti di Casale Monferrato e Broni, due centri che, pur seguendo traiettorie molto diverse, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso hanno dovuto misurarsi con la tragica conta dei morti innescata, dentro e fuori le mura delle fabbriche in questione, dalle polveri di amianto.
Si tratta di una narrazione coinvolgente sia sotto il profilo storico che umano, fatta di fonti documentarie, ma anche di significative fonti orali, attraverso la cui trama l’a. ripercorre il dramma di due comunità alle prese con lo spettro quotidiano del mesotelioma e con le sue ricadute sociali ed economiche. In particolare, ponendo l’accento sul ruolo degli attori politici e sociali coinvolti nell’emergenza, l’a. rivela come il dilemma tra salute e lavoro abbia prodotto esiti diversi nei due contesti. Mentre a Casale la presa di coscienza circa la gravità del problema avvenne precocemente grazie anche alla sensibilità della Cgil locale e a una amministrazione «illuminata» a guida democristiana, nel comune di Broni la messa al bando delle fibre di amianto richiese tempi lunghi. Bisognerà infatti attendere la «nevicata» d’amianto del 6 marzo 1990 sui tetti e sui campi di Broni perché il caso degli stabilimenti della Fibronit posti a ridosso del centro del paese susciti un primo timido movimento d’opinione.
All’epoca tra le forze di sinistra non era raro trovare chi, considerando il rischio alla salute «il prezzo da pagare» per garantire l’occupazione, riteneva che obiettivo delle scelte di politica economica fosse quello di aprire le porte delle fabbriche e non di chiuderle per problemi «di salubrità». Tutelare i posti di lavoro confinando il dibattito sulla «fibra killer» e sui possibili rischi legati al suo uso intensivo all’interno dei consigli di fabbrica e di un «passaparola» tra gli operai pareva un «compromesso» accettabile in anni, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, in cui i problemi dell’ambiente trovavano poco spazio nelle agende governative e le strutture sanitarie, prive di un’articolazione sul territorio, non erano in grado di monitorare in modo capillare la salute delle comunità locali e prendere decisioni, anche impopolari, in tema di profilassi.
È comprensibile quindi, sottolinea l’a., che, nonostante gli esiti di tale sciagura siano approdati nelle aule di giustizia con un carico palpabile di dolore e incredulità, il processo di elaborazione dell’emergenza stenti ancora oggi a uscire dal privato in questo piccolo centro dell’Oltrepò dove quella che si profila ormai come una «strage silenziosa» potrebbe invece assumere i caratteri di una battaglia di civiltà nel contesto più ampio di un paese, l’Italia, ancora lontano dall’aver elaborato un’efficace cultura della prevenzione e della tutela del territorio.

Salvatore Botta