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Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico-sindacale a Bologna negli anni ’50

Eloisa Betti, Elisa Giovannetti
postfazione di Susanna Camusso, Bologna, Editrice Socialmente, 254 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2014

Il volume si inserisce nel rinato interesse per la storia del lavoro e delle organizzazioni dei lavoratori, e in particolare per quello che si registra intorno a diverse istituzioni
dell’area bolognese. Si divide in due parti metodologicamente diverse, ma che riescono
a dialogare in maniera proficua. Anche se dal titolo traspare un richiamo ai dibattiti del
presente, la ricerca è rigorosa, come si ricava dalla discussione storiografica e dalla vasta
documentazione archivistica.
Il saggio di Betti prende le mosse dal punto cui è giunta la storiografia con lo studio
di L. Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche (1991), rilevando come sia mancata una prospettiva di genere sui licenziamenti per rappresaglia politico-sindacale, in cui
Bologna assunse un rilievo nazionale. Anche nelle fonti coeve «la “Classe operaia” e le sue
lotte continuano a non avere genere, o meglio un genere maschile “neutro”»: ciò evidenzia
«come la preminenza della “classe” sul “genere” fosse spesso condivisa dalle stesse donne»
(p. 20). L’a. ricostruisce il contesto dei licenziamenti degli anni ’40 e ’50 ricorrendo alle
categorie di Lepre di «guerra civile fredda» e di «guerra civile minacciata» o a quella, più
adatta, di «guerra fredda interna», utilizzata da Della Porta e Reiter. Mostra la notevole
presenza di manodopera femminile nell’industria bolognese; passa in rassegna le maggiori
vertenze e l’incidenza dei licenziamenti rispetto al genere, con le peculiarità che questi
avevano anche nell’affrontarne le conseguenze; sottolinea la «doppia militanza» delle attiviste del sindacato nei partiti e nell’Udi, accompagnata a volte da un passato antifascista.
Una ricerca di storia orale indaga la costruzione identitaria delle licenziate e la memoria
dei fatti. Infine, si sofferma sugli stereotipi di rappresentazione del femminile.
Proprio alla rappresentazione è dedicato il saggio della Giovannetti. L’immagine è
interpretata come veicolo di contenuti e come fonte per la comprensione dell’atteggiamento verso le donne. Le foto sono analizzate non come fatto oggettivo, ma come punto
di vista informato e soggettivo, che risponde a ciò che i fotografi, o i committenti, volevano far vedere, senza tralasciare la possibilità di rilevare una «testimonianza empirica della
presenza femminile nelle vertenze» (p. 145). Importante è quindi chiarire come e perché
sono state prodotte. Nei fondi della Camera del lavoro le immagini non professionali,
relative al periodo 1945-1950, ritraggono una comunità di uomini e donne; mentre negli
anni successivi subentrano i fotografi e i committenti, che rappresentano le donne in
maniera separata, riaffermando i ruoli del lavoro di cura, di madri, di sarte; traspaiono i
canoni di bellezza ma anche l’aspetto della militanza e del lavoro. Nei fondi fotografici
dell’Udi, invece, opera una narrazione consapevole, che rafforza l’identità femminile nei
ruoli della solidarietà e del contributo alla lotta.

Stefano Bartolini