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Silvio Pons – Berlinguer e la fine del comunismo – 2006

Silvio Pons
Torino, Einaudi, XXIV-265 pp., euro 24,00

Anno di pubblicazione: 2006

Il volume è il frutto di un progressivo consolidamento di ricerche e interpretazioni che l’autore aveva anticipato e proposto in precedenti occasioni. Il risultato, nei suoi diversi punti di osservazione, rappresenta «il primo tentativo di ricostruire la politica internazionale di Berlinguer dalla sua elezione a segretario del PCI alla sua morte, basato su documenti di archivio » (p. XXII). Documentazione del PCI e di provenienza sovietica: l’intreccio tra le fonti fornisce una trama ricca, completa e di grande interesse. Il contributo appare segnato dalla prevalenza di un percorso interpretativo che costituisce un quadro di riferimento del periodo, il risultato di una stagione di studi e di ricerche tra Roma e Mosca. L’andamento è cronologico, legato alla parabola di Berlinguer e alla sua leadership. Il momento iniziale nelle ricadute del ’68 italiano e internazionale, l’epilogo negli interrogativi inevasi sull’eredità difficile e controversa del leader comunista. Berlinguer e il suo itinerario sono l’occasione per mettere a fuoco le dinamiche di interazione tra quadro interno e contesto internazionale; un approccio su cui Pons ha già lasciato il segno in studi più o meno recenti. In questo caso la trama coinvolge diversi protagonisti e punti di osservazione: il movimento comunista internazionale nelle sue dinamiche, il PCI stretto tra ortodossia ed eresia, il sistema internazionale della guerra fredda con i suoi condizionamenti e, sullo sfondo, i sintomi evidenti e poco ascoltati della crisi della Repubblica ben prima delle celebrazioni in tema dell’inizio degli anni Novanta. Si conferma così la centralità degli anni Settanta per comprendere processi che hanno modificato assetti e rapporti di forza consolidati. La parola chiave che compare nei titoli dei capitoli è l’eurocomunismo, prima inventato, poi sconfitto, infine proposto in un paese solo. Una parabola indicativa e un’analisi convincente sullo spazio esiguo e sulle debolezze strutturali di una proposta politica che ha attraversato parte del movimento comunista in quegli anni senza fare «proseliti e la sua spinta propulsiva si era esaurita senza generare un movimento politico degno di questo nome, identificabile con una tradizione riformatrice interna al comunismo: il suo fallimento significava anzi la marginalizzazione dell’ultima cultura politica organizzata che si qualificava in Europa occidentale come l’erede della tradizione rivoluzionaria della sinistra» (pp. 257-8). La sconfitta di Berlinguer è tutta dentro il portato di una conclusione così perentoria. Rimangono aperti una serie di quesiti che vanno al di là della stagione berlingueriana. Ne indicherei due, parte della anomalia italiana di quel decennio. Il giudizio sul portato dello strappo da Mosca, riluttante e incompleto per l’autore e tuttavia carico di conseguenze e ricadute (basti il riferimento al sostegno ricevuto dagli oppositori interni); l’eredità di Berlinguer in quella che viene definita «identità debole» (p. 258) che anteporrebbe una ricerca etico-universalistica alle sfide della politica. Con lo sguardo sull’Italia che si profila all’orizzonte nei primi anni Ottanta lo spessore del rapporto tra etica e politica rimane un nodo irrisolto e, per molti versi, attuale.

Umberto Gentiloni Silveri