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Tra partito e KGB. Per una ricostruzione del ruolo di Jurij Andropov nella politica sovietica

Andrea Giannotti
Torino, Giappichelli, 278 pp., € 30,00

Anno di pubblicazione: 2018

Nell’agosto 1991, dai muri della Lubjanka fu rimossa la lapide di Andropov, assieme a quella di Dzeržinskij. Oggi, la lapide è stata ripristinata, e decine di biografie e memorie di carattere prevalentemente apologetico, una con la Prefazione di Putin, un monumento e persino l’emissione di un francobollo, conferiscono ad Andropov il ruolo di membro del pantheon dei grandi protagonisti della storia sovietica e di nume tutelare della Russia odierna. L’a. si pone il compito di cogliere le ragioni di questa parabola ricostruendo la sua ascesa da epuratore nei paesi del Baltico nel secondo dopoguerra a rifondatore del Kgb, da lui diretto dal 1967 al 1982, e infine a segretario del Pcus per soli 15 mesi. Il risultato non delude le aspettative.
Dal lavoro condotto con notevole impegno documentario e con empatia verso il protagonista emerge l’immagine di un «Giano bifronte […] intellettuale raffinato e autoi- ronico, ma anche irremovibile paladino del dogma leninista» (p. 240). Nella convincente interpretazione, la chiave di questa duplicità va individuata nelle vicende del 1956 in Ungheria, durante le quali l’allora ambasciatore Andropov, il primo a cogliere il precipi- tare degli eventi, grazie a una conoscenza diretta della situazione, non condizionata dal distacco dalla realtà dei dirigenti del Cremlino, fu il più deciso nel sostenere la necessità di reprimere tempestivamente per poi formare un regime con più ampie basi di consenso. Il successivo impegno alla direzione della sezione per l’Europa orientale del Pcus e del Kgb trasse ispirazione da questa esperienza.
Lo stile di direzione di Andropov, aperto al confronto con i collaboratori, fece delle due istituzioni una scuola di quadri che, in forma diversa, hanno contribuito in modo decisivo alla perestrojka e all’esperienza putiniana. La formazione del Quinto Direttorato del Kgb puntò, con successo, all’isolamento oltre che alla repressione del dissenso. Il rafforzamento e specializzazione degli apparati dello spionaggio e controspionaggio ebbe l’obiettivo di sostenere il confronto con l’Occidente in condizioni di inferiorità, della quale i vertici del Partito non erano sempre consapevoli.
Dal testo emergono anche i limiti di questa strategia. Nel 1968 in Cecoslovacchia, e poi in Afghanistan e Polonia, la «sindrome ungherese» e le politiche da essa ispirate (p. 57) si rivelarono nel lungo periodo più di ostacolo che di soluzione ai problemi. Andropov riuscì a instillare in avversari e cittadini sovietici «l’idea che il KGB fosse onnipresente e onnisciente» (p. 113), contribuendo alla stabilità del sistema, ma le parole pronunciate da segretario generale nel 1983, «non conosciamo il paese in cui viviamo» (p. 235), più che indicare un programma suonano a posteriori come un’ammissione di impotenza. Solo le società chiuse e stagnanti possono essere conosciute e guidate dall’alto. Gorbačëv lo comprese in ritardo. Putin ha fatto del «siamo un’organizzazione čekista», con il quale Andropov si accomiatò dal Kgb (p. 217), un tratto da estendere potenzialmente a tutte le istituzioni della Russia d’oggi. Con quali risultati vedremo.

Fabio Bettanin