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Una incerta idea. Stato di diritto e diritti di libertà nel pensiero italiano tra età liberale e fascismo

Mario Caravale
Bologna, il Mulino, 346 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2017

La nozione di Stato di diritto segna l’ingresso nella modernità politica, ovvero in quella fase che ospita una configurazione del potere in cui ai rapporti personali di lealtà, sottomissione, vassallaggio si sostituiscono regole certe. Nel primato della legge, anche chi occupa il vertice della piramide sociale deve agire in conformità ad essa. Ma questa nozione ha una storia e sviluppi non sempre univoci: l’a. ne osserva lo svolgimento attraverso l’età liberale, gli anni a ridosso della prima guerra mondiale e il fascismo dalle origini al consenso.
A metà ’800 la dottrina francese coglie nella libertà individuale, intesa come possibilità di resistenza del singolo a un governo tirannico, l’essenza del moderno costituzionalismo. Funzione primaria dello Stato è tradurre i diritti naturali dell’individuo in norme giuridiche. Tale idea è messa in discussione dalla coeva dottrina tedesca. Lo Stato per essa non può essere un semplice gendarme posto a presidio della sfera dei singoli, ma è la sede del raccordo complessivo tra le finalità di tutti i membri della collettività, il solo interprete della generale prosperità: esso ha un compito morale non delegabile. Al recupero del carattere etico dello Stato, guardano anche autori italiani di fine secolo, tra cui Francesco Filomusi Guelfi nella sua Enciclopedia giuridica del 1873.
Prima dell’avvento del fascismo, autori come Rocco o Panunzio raccolgono simili motivi in vista dell’edificazione di una comunità politica in cui le libertà dei singoli non possono essere concepite in antitesi alle prerogative dello Stato. Secondo questa declinazione, il diritto stesso in quanto limite e criterio appare insufficiente. Giacché libertà e diritti vanno soppesati e tutelati nelle fasi ordinarie della storia, ma in momenti particolari di bisogno collettivo le esigenze dello Stato reclamano un primato assoluto. Instauratosi il regime, nella dottrina italiana il discorso sulle libertà individuali si snoda lungo due possibili direttrici. L’una, seguita dalla maggior parte degli autori (Spirito, Volpicelli, Gentile, Panunzio, Costamagna) vede nella dinamica delle libertà e dei «diritti pubblici subiettivi» di derivazione germanica una forza potenzialmente dissolvitrice che rischia di minare le fondamenta della coesione sociale e dell’ordine politico. L’altra, quella che appartiene all’autorevole ma agnostica riflessione di Orlando, si riferisce nel 1928 alle libertà individuali come descritte dallo Statuto albertino: mettendo tuttavia tra parentesi le leggi «fascistissime» e tutti i provvedimenti di stampo autoritario nel frattempo adottati. Solo agli antifascisti e agli esuli (F. L. Ferrari, Ruffini, Orrei, Trentin) è possibile condurre una critica serrata a quanto va avvenendo e formulare un richiamo autentico alla tradizione liberale calpestata. Nemmeno il confronto con il regime nazista sembra scalfire nei giuristi italiani più zelanti la fiducia, a questo punto quanto mai retorica, nel concetto di Stato di diritto.

Ernesto De Cristofaro